Pratica: costanza o abitudine?

Una presunta “perfezione” nella esecuzione di una forma o di una tecnica vale molto meno della attiva consapevolezza del “qui ed ora”; se non siamo presenti a noi stessi, se stiamo solo scimmiottando i movimenti altrui senza sentirli nostri, se siamo ossessionati dal voler “copiare” quelli che fa il compagno più esperto piuttosto che comprendere in profondità quello che facciamo noi, se stiamo adempiendo un dovere imposto da altri piuttosto che godendo di un piacere offerto da noi stessi allora stiamo sprecando il nostro tempo e illudendoci di praticare correttamente.
Tutte le attività, per essere apprese con successo, richiedono una pratica costante . Il rischio però è che quando una azione o un gesto viene ripetuto in maniera frequente, questo si trasforma in una sorta di abitudine, un compito routinario che eseguiamo senza prestare una attenzione cosciente, con la mente impegnata a programmare il prossimo impegno o a ricordare un evento trascorso.

Accade quando eseguiamo i soliti gesti la mattina appena svegli oppure la sera prima di andare a letto, quando ci rechiamo in auto al lavoro, quando facciamo colazione. Quante volte siamo usciti da casa chiedendoci se avessimo chiuso il gas, spento la luce o preso le chiavi dell’auto?

L’abitudine della pratica

Può accadere la stessa cosa nella pratica delle discipline interne; ripetere quasi quotidianamente una forma o una sequenza di movimenti può diventare una sorta di viaggio che compiamo con il pilota automatico inserito, una specie di recita eseguita come farebbe un pappagallo, che pronuncia parole di cui non comprende il significato.

Quello che è un mezzo diventa un fine, la nostra attenzione cosciente non è più sulla esecuzione del gesto, sulle reazioni che provoca a livello fisico ed emotivo, su quelle che possono essere le sue applicazioni marziali; siamo come in trance e la nostra esecuzione potrà essere forse esteticamente perfetta ma in realtà completamente priva di Yi, la “intenzione” che deve essere il motore e la linfa vitale di ogni nostro gesto, come ricorda spesso il M° Severino Maistrello, Direttore Tecnico della Wudang Fu Style Academy e successore del G.M To Yu.
 
Come è facile immaginare, questo rischio aumenta con la esperienza del praticante, poiché la maggior parte dei principianti sono solitamente attenti alle indicazioni del loro insegnante ed a come riproducono i movimenti che gli vengono mostrati, mentre chi ha qualche anno di pratica alle spalle a volte si sente “arrivato”, perfetto, con null’altro da migliorare.

Chi smette di salire ha già cominciato a scendere 

Abbiamo imparato quasi a memoria gli insegnamenti del nostro Maestro, abbiamo letto libri e visionato filmati, abbiamo esplorato la Internet ed i social network per confrontarci con altri praticanti e scambiarci opinioni, riusciamo a mantenere l’equilibrio anche nelle posture più precarie, abbiamo il record di resistenza nello Zhan Zhuang, abbiamo vinto coppe e medaglie in gare e competizioni e ci riteniamo – più o meno a ragione – degli esperti e cominciamo a trasformare lentamente, impercettibilmente, il nostro modo di praticare.

I nostri gesti diventano “vuoti”, la nostra attenzione è altrove, i movimenti diventano fini a se stessi, una sorta di filastrocca che ripetiamo a memoria, anche un po’ infastiditi ed annoiati, perdendo la curiosità di scoprire cose nuove e la voglia di approfondire quelle che già conosciamo.

Vizi e abitudini

Il rischio è quello di trasformarci in una specie di “sepolcro imbiancato”, al pari di quegli ipocriti descritti nei Vangeli cristiani che fanno ciò che fanno non per il piacere o la convinzione di farlo ma perché è oramai diventata una abitudine, una consuetudine, un rito laico a cui non vogliamo rinunciare ed a cui non riusciamo a sottrarci.

Ciascuno di noi, indipendentemente dal suo livello di addestramento, dovrebbe costantemente interrogarsi sulle modalità e motivazioni della sua pratica e – soprattutto – rispondersi con sincerità.  

Carlos Castaneda – uno studioso delle tradizioni sciamaniche sud americane – riporta nel suo libro “Gli Insegnamenti di Don Juan” l’ammonimento che gli rivolge il suo Maestro, invitandolo a riflettere sul suo percorso di formazione: “Ogni strada è soltanto una tra un milione di strade possibili. Perciò dovete sempre tenere presente che una via è soltanto una via. Se sentite di non doverla seguire, non siete obbligati a farlo in nessun caso.
Ogni via è soltanto una via. Non è un affronto a voi stessi o ad altri abbandonarla, se è questo che vi  suggerisce il cuore. Ma la decisione di continuare per quella strada, o di lasciarla, non deve essere provocata dalla paura o dall’ambizione.
Vi avverto: osservate ogni strada attentamente e con calma. Provate a percorrerla tutte le volte che lo ritenete necessario. Poi rivolgete una domanda a voi stessi, e soltanto a voi stessi: “Questa strada ha un cuore?” Tutte le strade sono eguali. Non conducono in nessun posto. Ci sono vie che passano attraverso la boscaglia, o sotto la boscaglia. Questa strada ha un cuore? E’ l’unico interrogativo che conta. Se ce l’ha è una buona strada. Se non ce l’ha, è da scartare.”

E per quanto noi possiamo dedicarci alla nostra pratica, se questa è solamente fisica, se è priva di quel “fuoco sacro” che deve essere  alimentato dalla passione sincera e non dalla stupida presunzione, il rischio di fallire nel raggiungere il nostro traguardo è più che probabile, come scrive nel suo “Libro dei cinque elementiMusashi Miyamoto, uno dei più famosi spadaccini giapponesi: “Nell'andare da qualche parte c'è sempre la possibilità di sbagliare strada. Se pur ci si applica duramente alla pratica quotidiana, quando lo spirito è fuorviato non percorreremo una Via reale, anche se lo crediamo. Se non ti accerterai attentamente e continuamente che la pratica sia aderente alla realtà, le più piccole deviazioni iniziali tenderanno a portarti sempre più fuori strada

La prova della Via

Come fare a scoprire la “qualità” della nostra pratica? Non è certamente facile ed è indispensabile – come detto – avere la capacità di fare una sincera analisi di quello che facciamo, del come e del perché. Pratichiamo perché lo vogliamo davvero oppure abbiamo semplicemente sviluppato una serie di nuove abitudini, più o meno esotiche ed originali, a cui non rinunciamo per noia o perché non sapremmo cosa fare di diverso? Siamo sinceramente certi di essere impegnati nella pratica e nella coltivazione della disciplina che seguiamo oppure stiamo solo scimmiottando dei rituali esterni senza alcun cambiamento al nostro interno? 

Quando non sappiamo o non vogliamo darci noi la risposta, questa a volte giunge insieme a degli eventi imprevisti;  il "cuore" della nostra pratica, l’”anima” della nostra scelta emerge nella sua cruda realtà quando si presentano avversità o situazioni sfavorevole. Come afferma Francois Fenelon: “Discendiamo il fiume e non ci rendiamo conto del suo rapido corso; ma quando cominciamo appena un po’ ad andare contro corrente, subito lo avvertiamo” e così la pratica realmente appresa ci consente di sperimentare il contesto ed esaminare la mente e di constatare quanto riusciamo a gestire le nostre azioni quando siamo fuori dalla nsotra zona di comfort perché – come ricordava un saggio Maestro – è facile meditare nel silenzio del deserto, ma siamo davvero bravi quando riusciamo a meditare in un affollato vagone della metropolitana.

La pratica è una scelta consapevole? Gli dedichiamo il giusto tempo e la giusta attenzione oppure è un “passatempo” come un altro? Quali sacrifici e quali sforzi siamo disposti a compiere per eseguirla al meglio delle nostre possibilità? La scelta dell’insegnante, della disciplina, della Scuola è stata consapevole oppure abbiamo semplicemente optato per la più comoda, la più economica, la meno faticosa? 

In conclusione, una presunta “perfezione” nella esecuzione di una forma o di una tecnica vale molto meno della attiva consapevolezza del “qui ed ora”; se non siamo presenti a noi stessi, se stiamo solo scimmiottando i movimenti altrui senza sentirli nostri, se siamo ossessionati dal voler “copiare” quelli che fa il compagno più esperto piuttosto che comprendere in profondità quello che facciamo noi, se stiamo adempiendo un dovere imposto da altri piuttosto che godendo di un piacere offerto da noi stessi allora stiamo sprecando il nostro tempo e illudendoci di praticare correttamente.